mercoledì 28 agosto 2013

Normalità e femminicidio

Recentemente, come noto, una legge sul femminicidio ha inasprito le pene per chi usa violenza verso le donne, sia essa fisica che psicologica. Benchè si tratti di una violenza purtroppo mondiale e trasversale alle varie nazioni, presente in ogni classe sociale, è nei contesti degradati che si manifesta con maggiore intensità. Tant’è che il termine “femminicidio” è stato coniato in un’area particolarmente sottosviluppata, con riferimento cioè alle stragi di donne che avvengono nel confine tra Messico e Stati Uniti, e successivamente utilizzato anche in altri ambiti diversi tra loro. Tralasciando di entrare nel merito della incisività e dell’efficacia delle norme che disciplinano questo fenomeno e volendo trattarlo, più che altro, a livello culturale, non possiamo ritenere accettabile la giustificazione che spesso viene data a questi atti così aberranti, qualificandoli come “crimini passionali”, dovuti cioè all’amore di uomini malati oppure alla malattia di uomini innamorati e relegandoli, in definitiva, ai due concetti, spesse combinati tra loro, di amore e di malattia. Il risultato è di banalizzare o sottacere, in buona o in mala fede a seconda dei casi, la causa effettiva che in Italia, da inizio anno, ha provocato la morte di oltre 80 donne. Causa che va invece ricercata in una cultura maschile, retrograda e ipocritamente celata, che considera inaccettabile il controllo da parte delle donne della propria sessualità. Ergo, la donna, per molti uomini, non può essere libera di scegliere, di vivere, di amare. Il femminicidio è soltanto la conseguenza logica di rapporti diseguali tra uomini e donne, che produce questa stessa violenza e che solo una conversione culturale e sociale imponente può modificare. Una conversione radicale che può rendere una donna libera, come tutte le donne devono essere.

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